Dott. Franco Tramontana 
Specialista in Ginecologia ed Ostetricia
 
 

Malattie infettive in gravidanza

ARGOMENTI

CITOMEGALOVIRUS

Il Citomegalovirus è un virus facile da trasmettere ma che non provoca nella maggior parte degli individui alcun sintomo. Molte donne infatti non sanno di averlo contratto fino al momento dell’analisi del sangue prescritta dal proprio ginecologo all’inizio di una gravidanza. Purtroppo però, pur non causando danni di alcun tipo, una volta contratta l’infezione il virus rimane latente all’interno dell’organismo per tutta la vita, e può riattivarsi in caso di indebolimento del sistema immunitario. E’ proprio questo il caso di una donna in gravidanza, che può pertanto trasmetterlo al feto, con il rischio di gravi danni.


Trasmissione e sintomi
L’uomo è l’unico serbatoio di infezione del Cmv, la cui trasmissione avviene da persona a persona tramite i fluidi del corpo, tra cui sangue, saliva, urina, liquidi seminali, secrezioni vaginali e latte. Il contagio può avvenire per contatto persona-persona (per esempio tramite rapporti sessuali, baci sulla bocca, contatto della bocca con mani sporche di urina o saliva), per trasmissione madre-feto durante la gravidanza o madre-figlio durante l’allattamento, per trasfusioni e trapianti di organi infetti.
La maggior parte degli individui sani, adulti o bambini, che contraggono la malattia non manifesta sintomi e non si accorge dell’infezione, mentre alcuni soggetti sviluppano una forma leggera della malattia con febbre, mal di gola, affaticamento e ingrossamento dei linfonodi.

In gravidanza
Si parla di “infezione congenita” quando il virus è trasmesso da madre a feto. L’infezione materna viene classificata come primaria quando è acquisita per la prima volta durante la gravidanza in una donna precedentemente sieronegativa, e secondaria quando avviene per riattivazione del virus latente o per reinfezione da un nuovo ceppo in una donna che aveva già contratto l’infezione. Infatti il problema è che una volta contratta l’infezione, il virus rimane latente all’interno dell’organismo per tutta la vita, e può riattivarsi in caso di indebolimento del sistema immunitario.
Il rischio di trasmissione al feto non sembra essere correlato al periodo gestazionale durante il quale viene contratta l’infezione, anche se si ipotizza un maggior rischio di severità della malattia quando la trasmissione avviene nei primi tre mesi di gravidanza.
Il rischio di trasmissione al feto varia fra il 30 e il 40% nella forma primaria e fra lo 0,5 e il 2% nella forma secondaria. Fortunatamente, l’85-90% dei neonati con infezione congenita è asintomatico, anche se il 10% circa dei neonati asintomatici presenta comunque sequele tardive, generalmente difetti uditivi di severità variabile, con possibili decorsi fluttuanti o progressivi.

Neonati che presentano sintomi
Il 10-15% circa dei neonati è invece sintomatico, con sintomi che possono essere temporanei o permanenti. Tra quelli temporanei si segnalano in particolare problemi al fegato, alla milza, ai polmoni, ittero, petecchie (cioè chiazze rosse sulla pelle corrispondenti a piccolissime emorragie), piccole dimensioni alla nascita e convulsioni. Purtroppo i sintomi permanenti possono essere molto gravi e causare diverse forme di invalidità permanente come sordità, cecità, ritardo mentale, dimensioni piccole della testa, deficit di coordinazione dei movimenti, convulsioni fino alla morte. In alcuni bambini i sintomi compaiono mesi o anni dopo la nascita, e in questi casi i più comuni sono la perdita dell’udito e della vista. La comparsa di disabilità permanenti è più probabile nei bambini che mostrano i sintomi già dalla nascita.

Prevenzione
Non esiste attualmente un vaccino per la prevenzione del Citomegalovirus. Il modo migliore per limitare il rischio di contagio è un’attenta igiene personale, soprattutto per le categorie di persone più vulnerabili alla malattia (donne in gravidanza, individui immunodepressi, bambini piccoli o appena nati). È sempre buona regola lavarsi le mani con acqua calda e sapone prima di mangiare e di preparare e servire il cibo, dopo aver cambiato i bambini, dopo essere andati in bagno e dopo ogni tipo di contatto con fluidi corporei. È opportuno evitare di scambiarsi posate o altri utensili durante i pasti, soprattutto con bambini piccoli. Più in generale la pulizia della casa e soprattutto delle superfici contaminate da fluidi corporei (come saliva, urina, feci, liquidi seminali e sangue) facilita la prevenzione del contagio.

Diagnosi
Sono disponibili diversi test in grado di rilevare l’infezione da Citomegalovirus. La rilevazione di anticorpi IgG contro il Citomegalovirus su un campione di sangue indica un contatto con il virus, ma non è in grado di determinare né il periodo del contagio (cioè se l’infezione è in atto o risale al passato), molto utile in caso di gravidanza, né l’eventuale trasmissione del virus al feto. Nel caso in cui prima della gravidanza questo test risulti negativo, è importante che la donna presti particolare attenzione alle misure utili a evitare il contagio.
Il test per rilevare gli anticorpi IgM, utilizzato per accertare le infezioni recenti, ha evidenziato spesso dei falsi positivi e non è quindi affidabile senza l’integrazione con altri tipi di test. Un test utilizzato per risalire al periodo dell’infezione è il test di avidità delle IgG.
Per determinare l’eventuale trasmissione del virus al feto sono necessari esami più invasivi, come l’amniocentesi o l’analisi del sangue fetale. Per individuare in un neonato un’infezione congenita da Citomegalovirus durante le prime tre settimane di vita si cerca direttamente la presenza del virus (e non degli anticorpi) nelle urine, nella saliva e nel sangue. In caso di Citomegalovirus congenita non è stato ancora identificato nessun tipo di marker prognostico del periodo prenatale per determinare se il neonato sarà sintomatico o se svilupperà sequele.

Terapie e cure

Non si conoscono trattamenti prenatali efficaci e sicuri per prevenire la trasmissione madre-feto dell’infezione né per ridurre le conseguenze di un’infezione congenita, poiché tutti i farmaci disponibili sono estremamente dannosi per il feto. Alcuni farmaci antivirali possono aiutare a controllare l’infezione negli individui immunodepressi, evitando gravi complicanze, in particolare a occhi, fegato, sistema gastrointestinale e sistema nervoso.




ROSOLIA

Come morbillo, varicella, pertosse e parotite, la Rosolia è una delle malattie più comuni nell’età infantile. Si tratta di una malattia infettiva causata da un virus del genere rubivirus, della famiglia dei Togaviridae e si trasmette solo nell’uomo. Si manifesta con un’eruzione cutanea simile a quelle del morbillo o della scarlattina. Di solito benigna per i bambini, diventa pericolosa durante la gravidanza perché può portare gravi conseguenze al feto. Una volta contratta, la rosolia dà un’immunizzazione teoricamente definitiva.

Sintomi e diffusione
La rosolia si diffonde tramite le goccioline respiratorie diffuse nell’aria dal malato o il contatto diretto con le secrezioni nasofaringee. La malattia, che ha una incubazione di 2-3 settimane prima della comparsa dei sintomi, è contagiosa nella settimana che precede l’apparizione dell’eruzione cutanea e per i 4 giorni successivi.
Un periodo molto più lungo di contagiosità riguarda invece il neonato che nasce con sindrome congenita. Infatti in un neonato affetto da sindrome congenita poiché colpito da infezione durante la gravidanza, il virus viene messo in circolazione per lunghi periodi di tempo, non per i 7-10 giorni caratteristici della malattia acquisita dopo la nascita. Il periodo di contagio quindi può durare anche mesi o addirittura più di un anno, con una potenzialità infettiva molto elevata che richiede l’isolamento, sia durante il ricovero nella nursery che al ritorno a casa.
I sintomi più comuni della rosolia sono lievi ed evidenti per un periodo di 5-10 giorni, anche se in un alto numero di casi possono non manifestarsi affatto. Nell’adulto, durante i primi cinque giorni di decorso, i sintomi principali possono includere, oltre all’eruzione cutanea consistente in piccole macchie rosa che compaiono prima dietro le orecchie, poi sulla fronte e su tutto il corpo e durano 2­3 giorni, anche febbre lieve e mal di testa, occhi arrossati e lacrimosi, leggeri gonfiori dei linfonodi alla base della nuca, sul retro del collo e dietro le orecchie e dolori articolari. E’ possibile anche riscontrare una diminuzione del numero di globuli bianchi nel sangue. Raramente la malattia comporta complicazioni anche se, come per le altre malattie infantili, il rischio di encefaliti è più alto se il paziente è un adulto. La diagnosi viene effettuata ricercando anticorpi specifici del virus nel siero tramite analisi del sangue.

Terapia e vaccino
Come anche per il morbillo e per altre malattie infantili, anche per la rosolia non esiste una terapia specifica. L’arma migliore contro la malattia è la vaccinazione preventiva, con il vaccino vivo attenuato, con un’efficacia > 95% e che garantisce immunità a vita. Non si tratta di una vaccinazione obbligatoria, ma altamente consigliata, e gratuita, sia per tutti i bambini che per le ragazze non immunizzate dopo la pubertà e per tutti gli operatori che svolgono mansioni a contatto con bambini e/o con donne in età riproduttiva. Per i nuovi nati, si consiglia una prima dose verso i 12-15 mesi di età, e un richiamo verso i 5-6 anni. Fino al 1999, in Italia veniva eseguita solo la vaccinazione sulle bambine in età pre-puberale, verso i 12-13 anni. Analogamente a quanto osservato in altre nazioni, questa strategia si è però rivelata insufficiente, in quanto l’elevata circolazione del virus in tutti i soggetti non vaccinati ha comportato una persistenza del rischio di infezione. La strategia attuale, in linea con quella attuata in altri paesi, è dunque quella di vaccinare tutti i bambini nel secondo anno di vita con il vaccino trivalente, contro morbillo, parotite e rosolia, di somministrarne una seconda dose entro i 5-6 anni di età. Contemporaneamente, è indispensabile vaccinare tutte le ragazze e le donne che non sono state vaccinate da bambine. Come per tutti vaccini vivi attenuati, la vaccinazione non viene praticata negli individui con deficit immunitario o sotto terapia immunosoppressiva (corticoidi, antineoplastici, antirigetto), nelle donne gravide o che desiderano esserlo nel mese successivo (per sicurezza, anche se non si sono mai verificati problemi correlati). Il vaccino è invece consigliato alle persone infette da Hiv che non hanno sviluppato Aids.

Rosolia e gravidanza: la sindrome congenita
In un numero elevato di casi, i sintomi della rosolia possono passare inosservati, un fatto pericoloso nel caso che la malattia venga contratta da una donna incinta. La rosolia presenta infatti alti rischi per il feto, sopratutto se la madre contrae la malattia all’inizio della gravidanza. Nelle prime settimane l’infezione può generare un aborto spontaneo o morte intra-uterina. Il feto però può anche venire infettato, soprattutto nei primi sei mesi di gravidanza, e contrarre la cosiddetta sindrome della rosolia congenita, che può provocare difetti alla vista o cecità completa, sordità, malformazioni cardiache, ritardo mentale nel neonato. Dalla dodicesima alla ventottesima settimana, la placenta esplica un’azione protettiva ed è quindi più raro che si verifichi un’infezione fetale. E’ possibile verificare l’immunità della madre alla rosolia con il rubeotest, da eseguire prima dell’avvio della gravidanza. L’esame viene comunque ripetuto con le prime analisi del sangue da eseguire in gestazione.


TOXOPLASMOSI

La toxoplasmosi è una malattia causata da un parassita, il Toxoplasma gondii, un microorganismo che compie il suo ciclo vitale, estremamente complesso e diverso a seconda dell’ospite, solo all'interno delle cellule. Il parassita può infettare moltissimi animali (dai mammiferi agli uccelli, dai rettili ai molluschi) e può trasmettersi da un animale all’altro attraverso l’alimentazione con carne infetta. Il Toxoplasma condii non si trova solo nella carne, ma anche nelle feci di gatto e nel terreno in cui abbia defecato un gatto o un altro animale infetto.

Sintomi e cause

Nell’infezione da Toxoplasma gondii è possibile distinguere due fasi successive: la prima (toxoplasmosi primaria) è caratterizzata da un periodo di settimane o mesi in cui il parassita si può ritrovare nel sangue e nei linfonodi in forma direttamente infettante. È la fase sintomatica della toxoplasmosi, che si accompagna a ingrossamento delle linfoghiandole, stanchezza, mal di testa, mal di gola, senso di "ossa rotte", a volte febbre e ingrossamento di fegato e milza. Esistono poi casi di toxoplasmosi primaria complicati da sintomi gravi, quali l'infiammazione della zona visiva dell’occhio (corioretinite, che può compromettere la vista) e dell’encefalo, oltre a sintomi attribuibili a una malattia autoimmune. Quest'ultima eventualità è frequente nei malati di Aids o nei soggetti trapiantati, per i quali spesso l’evoluzione è drammatica, perché la risposta alla terapia è insufficiente.

Il soggetto che contrae una toxoplasmosi è coperto per tutto l’arco della vita dalla possibilità di recidive, perché il corpo risponde all’infezione con produzione di anticorpi e linfociti specifici.

La risposta del soggetto al Toxoplasma gondii determina il passaggio alla seconda fase della toxoplasmosi (toxoplasmosi postprimaria), caratterizzata dall’assenza di segni clinici e di laboratorio dell’infezione acuta, ma con la persistenza del parassita nell’organismo, "incistato" nei muscoli e nel cervello. Se le difese immunitarie vengono meno (sia per malattia, sia per trattamenti medici), il microrganismo può tornare aggressivo, riprodursi e indurre nuovi danni. La toxoplasmosi è ad alto rischio nel caso in cui venga contratta in gravidanza: l'infezione può infatti passare al bambino attraverso la placenta, provocando in determinate circostanze malformazioni o addirittura l'aborto o la morte in utero. La toxoplasmosi rappresenta dunque un importante elemento di cui tenere conto nell'ambito della salute materno-infantile.

Prevenzione

Allo stato attuale non esiste un vaccino contro la toxoplasmosi: non è quindi possibile garantirne la prevenzione assoluta. Ci sono però una serie di comportamenti e di pratiche che possono ridurre notevolmente il rischio di contrarre questa malattia.

Ad esempio, tra le principali fonti di infezione nelle donne gravide è indicato il consumo di carne poco cotta: è quindi opportuno evitare di assaggiare la carne mentre la si prepara e lavarsi molto bene le mani sotto acqua corrente dopo averla toccata. Un’altra importante fonte di contaminazione è rappresentata dalla manipolazione della terra degli orti e dei giardini, dove animali infetti possono aver defecato. È quindi necessario che, chi svolge attività di giardinaggio, si lavi molto bene le mani prima di toccarsi la bocca o la mucosa degli occhi. Lo stesso vale per il consumo di ortaggi e frutta fresca, che dev’essere lavata accuratamente sotto acqua corrente.

Infine, negli ultimi anni si è ridimensionata l’attenzione nei confronti del gatto come portatore della malattia, in particolare se si tratta di un gatto domestico, alimentato con prodotti in scatola e la cui lettiera è cambiata tutti i giorni (le cisti del parassita si schiudono dopo tre giorni a temperatura ambiente e alta umidità). Il vero serbatoio della toxoplasmosi è invece rappresentato dai gatti randagi, che si infettano cacciando uccelli e topi contaminati, e che possono defecare nel terreno rilasciando Toxoplasma anche per diverse settimane.

I rischi in gravidanza e terapia

Nel caso in cui la donna dovesse essere contagiata durante la gravidanza, è possibile bloccare la trasmissione dell'infezione al bambino attraverso un trattamento antibiotico mirato. Il trattamento più utilizzato è quello con spiramicina, un antibiotico ben tollerato sia dalla madre sia dal feto. Esistono anche altri tipi di trattamento antibiotico, da somministrarsi con precisione e tempismo poiché nel caso in cui il trattamento non sia stato adeguato o sia iniziato troppo tardi, il bambino potrebbe avere una malattia grave già visibile alla nascita.

Con le attuali possibilità di trattamento, almeno il 90% dei bambini con toxoplasmosi congenita nasce senza sintomi evidenti e risulta negativo alle visite pediatriche di routine. Solo attraverso indagini strumentali più raffinate possono essere rilevabili piccole anomalie a carico dell’occhio e dell’encefalo. Le probabilità di trasmissione dell’infezione materna al feto aumentano man mano che la gravidanza progredisce: i bambini la cui mamma abbia contratto la toxoplasmosi dopo le 16-24 settimane di gestazione appaiono spesso normali alla nascita, anche se opportune indagini strumentali possono mettere in rilievo alcune anomalie. I feti contagiati nelle prime settimane di gravidanza, invece, sono quelli che subiscono le conseguenze più gravi dell’infezione congenita: interruzione spontanea della gravidanza, idrocefalia, lesioni cerebrali che possono provocare ritardo mentale ed epilessia, ridotta capacità visiva che può portare fino alla cecità.

Diagnosi

Poiché la malattia è spesso asintomatica, idealmente sarebbe bene conoscere il proprio stato prima della gravidanza, e cioè sapere se nel proprio siero siano presenti gli anticorpi per la toxoplasmosi. Si tratta di un semplice esame del sangue chiamato Toxo-test.

L’infezione induce nel corpo la produzione di immunoglobuline specifiche: nella prima fase della malattia (quella pericolosa per il nascituro) vengono prodotte IgM, successivamente (in una fase meno rischiosa) gli anticorpi prodotti sono di classe IgG. Il Toxo-test permette quindi di verificare l’assenza o la presenza di anticorpi, e, in questo secondo caso, di evidenziare se si è ancora in una fase a rischio o se invece la donna è da considerarsi protetta. Se la condizione della donna non è nota prima della gravidanza, allora il Toxo-test deve essere prontamente eseguito durante la gravidanza, con la prima serie di esami del sangue entro le prime otto settimane di gestazione. Se la donna è protetta (IgG +) il test non deve più essere ripetuto. Nel caso in cui invece la gestante sia "suscettibile", e quindi non abbia IgG né  IgM, deve eseguire controlli ogni 30-40 giorni nel corso della gravidanza, per escludere la possibilità di essersi infettata e che quindi il bambino rischi di contrarre una toxoplasmosi congenita.

Nel caso in cui il test dia come risultato la presenza di anticorpi IgM, l’infezione in gravidanza è comunque solo sospetta. Si procede quindi con test sierologici più sofisticati presso centri di riferimento sia per accertare la diagnosi sia, eventualmente, per disegnare una terapia. Se l’infezione è confermata, il nascituro, anche se apparentemente sano, dovrà essere seguito per almeno tutto il primo anno di vita da un centro specializzato per poter escludere eventuali danni cerebrali e visivi che insorgano nei mesi successivi.


VARICELLA

È una malattia contagiosa che colpisce prevalentemente l'infanzia. Il periodo di incubazione è di 14-21 giorni, mentre il rischio di contagio va da 5 giorni prima dell'esantema fino a 5 giorni dopo la scomparsa dell'ultima vescicola. Dato che circa il 95% delle persone adulte sono immuni, la varicella è veramente rara in gravidanza (1-5 casi su 10.000 donne). La probabilità di passaggio transplacentare è circa del 12%, mentre il rischio di lesioni fetali va dallo 0.4% nel primo trimestre, al 2% nel secondo e al 1% nei mesi successivi. Le lesioni sono prevalentemente cutanee; raramente il virus può colpire il Sistema Nervoso Centrale, l'occhio e le ossa.

La diagnosi si basa sulle manifestazioni cliniche, mentre può essere utile dosare gli anticorpi della madre, dopo un contatto, per valutare lo stato di immunità. La villocentesi, l'amniocentesi e la funicolocentesi sono scarsamente utili ai fini diagnostici e hanno un rischio di aborto mediamente superiore a quello che ha il virus di indurre malformazioni. L'ecografia morfologica, eseguita a varie epoche gestazionali, può aiutare a evidenziare alcune delle lesioni associate alla malattia.

Prevenzione

La prevenzione della varicella si basa sulla somministrazione di immunoglobuline specifiche alle donne non immuni entro 72 ore, in caso di contatto con un bambino affetto. Sembrerebbe inutile, invece, la somministrazione dopo la comparsa clinica delle vescicole. È consigliabile, comunque, che le donne in gravidanza non immuni evitino il più possibile contatti con bambini piccoli.



QUINTA MALATTIA

La quinta malattia (conosciuta anche come megaloeritema o eritema infettivo) è provocata dal parvovirus B19. È più frequente da marzo a maggio.

La quinta malattia si presenta in due fasi: all’inizio l’esantema  è al volto dove solo le guance diventano rosse e dopo un breve intervallo che varia da uno a quattro giorni compaiono soprattutto agli arti e ai glutei (meno al tronco) delle chiazze con il bordo arrossato e il centro chiaro, che, poiché spesso confluiscono fra loro, danno l’aspetto a merletto o a rete. L’esantema agli arti e ai glutei tende a durare molto, dai 7 ai 15 giorni e anche per alcuni mesi, dopo che la pelle sembra tornata normale può ridiventare rossa, quando il bambino pratica sport, fa un bagno caldo o sta al sole.

La quinta malattia non è pericolosa (è provocata da un virus e non richiede cura): nell’adulto, soprattutto nelle donne, ci possono essere dolori articolari. Può avere un decorso grave solo per i pazienti con anemia emolitica cronica o immunodeficienza.


In gravidanza
Anche se la quinta malattia viene contratta da una donna in gravidanza, i rischi sono bassi, infatti non dà malformazioni nel prodotto  del concepimento mentre la probabilità di provocare un aborto nelle prime venti settimane è basso, dal 3 al 9% e si riduce a meno dello 0,5‰ dopo la 22ª settimana. C’è un elemento ulteriore di tranquillità: il 60% delle donne in età fertile possiede anticorpi contro la quinta malattia, spesso anche senza sapere di averla avuta, perché può decorrere senza dare nessun segno clinico.


 

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